Allungare il passo per allungarsi la vita
“Città per camminare”. Questo è il nome – che è anche un po’ slogan – scelto per il progetto governativo lanciato lunedì scorso a Roma nella sede del Coni. Progetto che, nelle attese degli organizzatori, contribuirà a sconfiggere una delle piaghe più spaventevoli della nostra epoca: la sedentarietà. Patrocinato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero della Salute, dal Senato della Repubblica e dal Coni (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), prevede la creazione di una rete di percorsi pedonali in 32 città italiane, al fine di consentire ai cittadini di muoversi a piedi e rimanere in salute (ed anche in vita – aggiungerei – visto la strage di pedoni degli ultimi tempi).
Lo scopo è senza dubbio nobile, soprattutto in tempo di crisi. Pare infatti che la difficile congiuntura economica abbia costretto il 40% degli italiani all’inattività, mentre ben il 20% delle famiglie non riesce ad iscrivere il figlio a società sportive. Accidenti, siamo messi veramente male, verrebbe da dire. E non tanto perché non abbiamo più soldi per la palestra, la piscina, e la società sportiva per adulti e bambini, quanto perché – horribile dictu – siamo giunti ormai a teorizzare la creazione di percorsi per incentivare le persone a muoversi a piedi.
Quando ero piccolo, dopo la scuola e i compiti a casa, si scendeva in cortile a giocare – eravamo in tantissimi, decine, forse centinaia di ragazzini di ogni età – , si andava al parchetto o all’oratorio; si mettevano su partite a pallone facendo le porte con un paio di magliette, e poi ci si inseguiva per ore come guardie e ladri, nascondino, palla prigioniera. Erano pomeriggi divertentissimi, in cui si respirava fortissimo il profumo della libertà e della gioia condivisa, e che riempivano di entusiasmo e stanchezza fisica. E a sera conciliavano il sonno.
Rarissimi erano gli amici che praticavano sport di disciplina, come il tennis o il nuoto. E ricordo che quando le loro madri venivano a prenderli per portarli a lezione c’era sempre un fuggi fuggi generale, con pianti e scenate di disperazione. Oggi, a quanto pare, se non si hanno più i soldi per le iscrizioni alle società sportive, la nostra gioventù, e non solo è fregata. E quindi ecco che spuntano progetti, iniziative, consigli dei medici e sportivi vari. «Bisogna compiere piccoli gesti quotidiani rispettando una distanza minima – dice Gerardo Corigliano, presidente dell’Associazione nazionale italiana atleti diabetici – come ad esempio 5 mila passi, che corrispondono a circa 3 km. L’80% delle malattie croniche, come quelle cardiovascolari può essere prevenuto seguendo corretti stili di vita».
Giustissimo, ci mancherebbe. «Come medici di famiglia – aggiunge Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale – stiamo cercando di diffondere il concetto di prescrizione dell’attività fisica, che a tutti gli effetti è un vero e proprio farmaco». Perfetto, ottimo proposito. Come quella tale mia vicina, che un giorno udì dal suo medico di base queste parole: «Signora, lei non ha bisogno di cure o medicine. Lei ha solo bisogno di rapporti umani, di parlare con la gente. Di solitudine si può anche morire». E da quel dì cominciò a rompere i coglioni a tutto il mondo. Oppure quell’altro tale cardiopatico, che essendo a visita medica specialistica, accompagnato dalla consorte, ascoltò queste parole di verità: «Signora, la vita di suo marito è nelle sue mani. Gli faccia fare almeno due ore di cyclette al giorno. Tutti i giorni, comprese le domeniche e le festività comandate». E questi disperato: «Dottore, io non posso fare la cyclette…, ho le emorroidi…! Potrei sostituire le pedalate con le frustrate? Le preferirei…». A parte gli scherzi comunque tali consigli e considerazioni sono in linea generale e astratta di perfetto buonsenso. Ma sono attuabili? Sono perseguibili nell’ambito della nostra società? Una società nella quale le strade e i marciapiedi delle nostre città ad esempio sono fatti a misura di automobile? Secondo i dati Aci-Istat nel 2011, ben 282 ciclisti sono morti sulle strade. Più di 16 mila i feriti. Ogni giorno sulle strade italiane muoiono due pedoni, più di seicento ogni anno finiscono sotto le ruote di una macchina che va troppo forte, non rispetta le strisce, è guidata da un ubriaco.
A memoria d’uomo nessuno ha mai visto un vigile urbano elevare contravvenzione verso un automobilista che non si ferma per far passare una persona sulle strisce. E anche quei pochi automobilisti, che pure sarebbero animati da buone intenzioni, evitano di rallentare o fermarsi, paventando nella migliore delle ipotesi una strombazzata selvaggia alle proprie spalle, associata al segno del coniuge tradito. Cose inimmaginabili, ad esempio, in Germania o in Inghilterra. E così, di fronte a questa realtà sconvolgente e disumana, l’istituzione dei percorsi pedonali cittadini mi appare come un’iniziativa tenera, sognatrice e assolutamente utopistica. Come un tentativo disperato e coraggiosissimo di invertire la tendenza che ci ha travolto negli ultimi decenni. Un po’ come le piste ciclabili delle grandi metropoli, diventate la sede naturale del parcheggio selvaggio. Siamo giunti ormai alla riserva indiana, all’ultima ridotta per evitare di essere travolti dal traffico – soprattutto in senso fisico – . Mi direte, ma è solo questione di educazione, repressione dei comportamenti scorretti, abitudini sbagliate. Già, senza dubbio. Ma forse è proprio il nostro modo di vivere che è sbagliato e andrebbe radicalmente rivisto.
Eliminare il trasporto privato – incentivando quello pubblico – potrebbe essere un’idea. Un’idea tra le tante. Abitando in provincia, ad esempio, mi accorgo che ad usare la bicicletta come mezzo di trasporto – non già come attrezzo sportivo… lì imperversano i dopatissimi appassionati della domenica – sono rimasti solo gli extra-comunitari e alcuni anziani. Questi ultimi candidati purtroppo ad entrare nelle tragiche statistiche Aci-Istat di cui sopra. Nessuno infatti si muove più se non in automobile. Soprattutto quando piove e davanti alle scuole si scatena l’orda selvaggia: perché non sia mai che i bimbi prendano due gocce d’acqua.
Senza parlare del camminare a piedi. Se chiedi a qualcuno di indicarti la via per un determinato posto, la prima cosa che ti senti rispondere – sempre che qualcuno abbia il tempo e la voglia di ascoltarti – è il mezzo pubblico più vicino da prendere. Che se poi chiedi quanta strada c’è da fare vieni squadrato come un marziano appena sceso dalla navicella: “Ma saranno più di due chilometri…, non ce la si fa”. Due chilometri…, venti minuti di cammino! Ecco bisognerebbe riflettere su questo. Ad ogni modo in questo mare di clacson, gas di scarico e rumore di motori, ben vengano anche le “Città per camminare”: è un piccolo, quasi insignificante passo – a cui peraltro auguriamo tanta strada e fortuna – , ma a questo punto va bene pur che sia.
Luigi D’Ausilio
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