Qui non si butta via niente!
«L’aut-aut tra avere ed essere non è un’alternativa che si imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l’avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura nella quale la meta suprema sia l’avere – e anzi l’avere sempre più – e in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che “vale un milione di dollari”, come può esserci un’alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che l’essenza vera dell’essere sia l’avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla». Questo è l’incipit di Avere o essere scritto nel 1977 da Erich Fromm.
E dunque, essere o avere? Partendo da questa domanda Randy O. Frost e Gail Steketee, clinici tra i massimi esperti in “disposofobia” (accumulo compulsivo) hanno pubblicato da qualche giorno Tengo tutto – Perché non si riesce a buttare via niente (Centro Studi Erickson editore). In effetti, basta dare un’occhiata nelle nostre case per rendersi conto che viviamo praticamente soffocati dagli oggetti.
Merce acquistata senza pensarci, compulsivamente appunto, “perché può sempre essere utile”. Provate ad aprire con occhio distaccato i nostri armadi? Onesti però, basta con le ormai logore frasi fatte, soprattutto femminili – “Oddio, non ho nulla da mettermi” – non ci crede più nessuno. E i nostri cassetti? Quelli più a portata di mano? Cercate qualcosa di specifico dentro questi ricettacoli di ciarpame? Non ci riuscirete, neanche con un microscopio a scansione elettronica.
Siamo arrivati al punto che se non hai, non sei nessuno. Ci identifichiamo, senza accorgercene, con le cose che possediamo. E se dunque posseggo tante cose importanti e costose, sono una persona degna di stima. Terzani sosteneva che l’India non sarebbe mai stata travolta dal sistema capitalistico-materialista, perché, a differenza dei paesi occidentali, aveva ancora il culto del povero. Questo lo scrisse molti anni fa. Voglio augurarmi che ciò sia ancora vero.
Ricordo che da bambino accompagnavo mia madre al mini-market vicino a casa. Passando davanti ad una farmacia, venivo sempre rapito da un’autobotte dei pompieri in legno esposta in vetrina. Ma costava molti soldi, troppi per il portafogli di mia madre. E così, in cambio della promessa di essere buono, ricevevo la garanzia che da lì a breve avrei potuto avere quell’autobotte. Dopo un tempo che a me parve infinito, finalmente ricevetti questo regalo. E fu una gioia immensa, perché quel sogno era durato tanto, e l’aspettativa della felicità era cresciuta con forza dentro di me. Anzi, diciamola tutta, la vera gioia di quel regalo risiedeva tutta nell’attesa, nella speranza, nell’immaginare che prima o poi avrei posseduto quella meraviglia. E’ un po’ il concetto del “Sabato del villaggio”. Ovviamente poi, nel giro di qualche giorno l’autobotte divenne un oggetto qualunque. Quasi privo di importanza. Ad ogni modo, restava l’idea forte di aver meritato qualcosa e non di averla ottenuta senza impegno e sacrificio.Ecco, bisognerebbe tornare un po’ a quei tempi.
Ad ogni modo, se proprio devo essere sincero, anch’io sono malato di “disposofobia”. La mia malattia sono i libri. Ne ho a centinaia, sono ovunque e un giorno o l’altro mi soffocheranno nel sonno, lo so. Ma proprio non ne riesco a farne a meno. Direte, ma perché non ti iscrivi ad una biblioteca, così finito di leggere un volume lo riconsegni. E sì, bravi. E che malato sarei allora. La mia è una mania d’accumulo, una gelosia feroce che non mi consente nemmeno di prestare uno. Se per esempio, qualcuno a cui tengo mi chiede in prestito un libro, io prendo tempo, traccheggio e piuttosto che darglielo vado in libreria e glielo compro. Roba da matti, vero. Ad ogni modo se è vera la nefasta teoria dell’identificazione oggetti posseduti-persona, preferisco un libro, piuttosto che un’automobile. Se non altro non ho problemi di parcheggio (salvo esaurimento mensole).
Luigi D’Ausilio
E bravo Luigi
condivido quanto scrivi
anch’io ho sempre sofferto di un pò di “disposofobia”, libri, dischi, vestiti, ma anche cose più banali, come biglietti da visita, cartine escursionistiche, riviste, spezie … le cose si accumulano e non si riesce a buttarle, un disastro
la vera terapia l’ho scoperta una quindicina di anni fa e se non mi ha guarito del tutto mi ha certamente curato le forme più gravi
una sistematica serie di viaggi a piedi, spartani e con dei begli zaini pesanti, è una scuola di essenzialità senza eguali al mondo
provate…
Luigi
Attento ai romanzi di Andrea De Carlo: ho notizia di famiglie intere strangolate senza motivo.
Docile invece ho trovato “Santiago Express” di un certo D’Ausilio… lo conosci?
Ciao