In Serbia, lontano da Lonely Planet – parte III –


Qualche giorno dopo, approdati al villaggio fantasma dove ad una finestra una brocca di acqua e le tende bianche sembravano ancora incredule della dipartita dei padroni di casa, trovammo l’unica persona rimasta, un signore di 73 anni che per tre mesi all’anno se ne stava lì, solo. Non aveva “niente” da offrirci, però ci donò il “minimo garantito” dell’ospitalità: acqua del pozzo tirata su a mano e zucchero. A 35 gradi e in mezzo al nulla, non ci poteva essere cosa più gradita.
Anche la nostra guida “locale” che ci accompagnò per due giorni nei dintorni di Trifkovici, vicino al confine con la Bosnia, abita in un villaggio in cui vivono solo due abitanti: l’ “altra” è una donna di una settantina d’anni, e lui ne ha 42. La casa rurale dove siamo stati ospitati nelle 2 notti è il “progetto” di una famiglia di rianimare un borgo montano dove risiedono solo loro per tutta l’estate.
Le molte realtà di questo genere ci catapultarono quindi in una sorta di “macchina del tempo”, perché anche in questo angolo di mondo l’abbandono delle montagne e delle attività agricole sembra essere un fenomeno incontrovertibile, ma siamo ancora agli inizi, e quella brocca e quelle tende alle finestre lo stavano a dimostrare. Un ritorno all’Italia degli anni ’50-’60 anche nell’incontro con volti e corpi che assomigliano più ai film neorealisti italiani che alla fisicità mediatica che popola le nostre città oggi.
A partire dalla guida serba stessa. Fisiognomicamente, un enigma. Con il volto scavato dal sole e dalle rughe, era impossibile deciderne l’età: 40 anni o 60? Eppure era espressione del luogo quanto il profilo del covone di paglia o la rakija stessa: la pelle consumata di chi vive all’aria aperta, il passo moderato e costante con cui affrontava salite impervie con la stessa facilità di una discesa, l’eterna sigaretta in bocca in un Paese grande estimatore del tabacco, le scarpe da montanaro che portava, praticamente stivali di gomma tagliati al collo del piede, che qui sono gli unici scarponi da montagna che portano i locali, altro che goretex e altri cazzi moderni “da trekker”, il carattere chiuso del montanaro, che forse dialoga di più con gli agenti atmosferici e il tempo e la natura che con gli altri esseri umani, uno sguardo di inquieta intensità e dall’espressività accentuata, sconosciuto alla nostra sensibilità di “stranieri cittadini”. Lo fissavo “da lontano”, ne studiavo gli atteggiamenti, ma non riuscivo ad avvicinarmi, perché per me apparteneva ad un altro mondo, o almeno, ad un’altra epoca.
 
 
Avrei avuto mille domande da porgli, soprattutto la richiesta di raccontarmi la scelta di vivere in un paese in cui c’è solo una donna di 70 anni, ma so che non avrebbe capito la domanda, che sarebbe stata bollata come stranezza o curiosità di una turista passata di lì – paranoia intellettuale, anche se lui forse non conosceva l’amarezza né dell’uno né dell’altro termine. Lui semplicemente “era”, esisteva in quel mondo, come e nello stesso modo dell’abete di 200 anni o della mucca a cui tentai di rivolgere la parola ma non mi cagò di striscio. Era nel flusso delle cose e del mondo, con semplicità e armonia.
Non voglio cadere nella dottrina del “buon selvaggio” di Rosseau, ma quello che per me, per noi, figli della contemporaneità occidentale è frutto di un’acquisizione lunga e a volte dolorosa, ossia trovare la dimensione personale dell’ ”essere”, sembrava connaturato in lui come l’azione dei suoi muscoli involontari: lui non ci pensava, non ne era consapevole ma l’essere, come il cuore o i polmoni, funzionava e faceva il suo lavoro.
Mi accorsi che non potevo avvicinarmi a tutto questo con le mie categorie di pensiero usuali.
Un uomo di 73 anni che vive in un villaggio fantasma cosa fa tutto il giorno? Non si annoia? Non si sente solo? E’ seduto di fronte a casa sua su una panca di legno sotto un albero. Guarda il paesaggio, il cielo, la campagna. Sì, a vederla dal “nostro” punto di vista, non ha senso. O ha un senso di “estremo”. Pippo, compagno di viaggio, mi disse che la natura non è mai noiosa, che se “impari” a guardarla, vedi una varietà di cose multiforme e in cambiamento. La nostra, invece, pare, a volte, una vita a “metonimia”, del contenitore per il contenuto. Il contenitore è la scatola in cui ci rinchiudiamo felici e contenti. Stare tra quattro muri ora è la norma, finché intanto “facciamo cose” e “abbiamo cose”; mentre non riusciamo più a vedere quanto è sorprendente la vita all’aria aperta, che non si replica mai perché un giorno non può essere mai uguale ad un altro.
Chiaramente non è facile passare dalla dottrina dell’accumulo al sentire il flusso delle cose. Parlo almeno per me, io devo sempre fare cose diverse o almeno avere l’idea che se volessi, sono nelle condizioni di poterle fare: vivere in città significa esattamente questo, cioè poter accedere ad un’offerta ampissima di attività, anche se in pratica poi non fai mai NESSUNA di queste cose. Quanto alla diversità delle occupazioni in cui mi ritrovo, beh, se prendiamo appunto una domenica pomeriggio d’inverno, passata navigando tra facebook e siti internet vari, mi accorgo che siamo molto più vicini alla routine replicata all’infinito che all’infinito delle cose da fare.
Ci vuole un’altra vita, cantava Battiato! Siamo abituati ad un certo ordine di cose che tendiamo a pensare come l’unico modo che esista, ma ci sono anche altre vie, altri modi di stare al mondo, con il loro brutto e il loro bello, ma egualmente dignitosi e veri.
Mi è rimasto particolarmente impresso l’arte della conversazione in questi luoghi. Eravamo in una strada a traffico zero e incontrammo uno strano terzetto: una vecchietta piccola e magra, una mucca e un cane. Dopo il “buongiorno!” montanaro universale in tutto il cominciò una danza di lingue in cui lei proponeva il suo dialetto locale, la guida italiana rispondeva nel serbo ufficiale, noi non capivamo nulla ma incredibilmente lei si rivolgeva proprio a noi italiani ignari di questo caleidoscopio linguistico fissandoci negli occhi e dando così l’impressione di intrattenere un mutuo scambio verbale anche se a nostra totale insaputa. Da quello che riuscì a capire la guida, lei ci stava dicendo che nel suo villaggio solo una persona, ormai passata a miglior vita,  conosceva l’inglese, ma ricordava anche la promessa di Gorbaciov di rimanere al potere fino a quando tutti nei Paesi comunisti avessero imparato questa importante lingua per la comunicazione tra le persone, e ci congedò esprimendo l’irritazione personale nei confronti della mucca che placidamente continuava a camminare incurante e insensibile di fronte alla legittima volontà della sua padrona di intrattenersi a discorrere con le persone lungo la strada. Tutto questo venne espresso con la confidenza abitudinaria di un amico che avevi incontrato il giorno prima e che avresti ritrovato il giorno dopo al bar a prendere un caffè.
Le persone a cui ho raccontato il dialogo si sono soffermate sulla solitudine di questi montanari che si avventano sugli altri esseri umani che incontrano come le api sul miele pur di avere uno scambio linguistico. Non credo sia così. Per loro l’incontro con altri sarà sicuramente un piacere più raro vista la scarsa densità demografica di quei posti, ma non è un piacere agognato in sofferenza, perché sono persone molto autonome e presenti a se stesse. La mia impressione è che per loro incontrare un essere umano ogni giorno o una volta ogni cinque anni sia pressoché la stessa cosa, e che la conversazione sarà perlopiù la stessa nell’imperturbabilità del loro cuore, lasciando, d’altro canto, nell’interlocutore, una calorosa sensazione di spontaneità e immediatezza.
In questo universo umano popolare e “umile” in cui ho avuto la fortuna di imbattermi grazie a questo viaggio, mi paiono particolarmente adatte il concetto espresso da un cineasta egiziano, Youssef Chahine.
“Parlano di noi egiziani che siamo parte dell’Africa come di Terzo Mondo, ma noi siamo in giro da 7000 anni. Qui se vai a trovare un povero che non ha niente da darti lui andrà da un vicino di casa a farsi prestare un tozzo di pane pur di offrirti qualcosa, mentre in Europa se uno muore per strada la gente passa dritto e non se ne accorge neanche. Quando parliamo di Primo, Secondo e Terzo Mondo dobbiamo pensare a come rispondere a queste domande: tu riesci ad amare? Come ti prendi cura delle persone che incontri? Questo, secondo, me dà il significato alle parole civiltà e civilizzazione”.
Nicole Pilotto
– fine –
 

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